Il Segno del comando

1

Una berlina targata Gran Bretagna si arrestò davanti a un austero portone di via Margutta, all'altezza dello stabile  contrassegnato dal numero 53/B.

L'auto – una Jaguar un po' vecchiotta – era molto impolverata, come se avesse compiuto un lungo viaggio.

Era una tarda mattinata di primavera, una classica giornata del marzo romano, quando l'aria frizzante sa di verde anche se non si scorgono né alberi né giardini.

Dalla Jaguar scese un uomo vestito con sobria eleganza, biondo e con gli occhi azzurri, sui trentacinque–quarant'anni; un tipo disinvolto e piuttosto sicuro di sé, dall'aria inconfondibilmente britannica. Pareva compiaciuto di trovarsi nella lunga e stretta strada tradizionalmente abitata dagli artisti, sulla quale si affacciavano numerose le botteghe degli antiquari, dei falegnami e dei corniciai. Prese dall'auto una borsa di pelle e si soffermò ad osservare una targa che spiccava accanto al portone, scritta in caratteri neoclassici: «Studi di pittura e di scultura». Poi, con passo deciso, varcò la soglia del 53/B.

Oltrepassato un oscuro androne, fu costretto a fermarsi per la sorpresa. Non si aspettava di trovare una serie di cortili grandi e piccoli, con molti alberi e giardinetti pensili e terrazze e serre e scale e scalette esterne. Tanti fiori variopinti spruzzavano di macchie di colore quell'ambiente straordinario e lo rendevano profumato e allegro.

Dopo essersi orientato, l'inglese attraversò un lungo cortile, entrò in un secondo androne e prese a salire una scala angusta che conduceva ai piani superiori. Si arrestò infine, con un accenno di fiato grosso, davanti alla porta decrepita dell’interno 13. Nessun nome, solo un bianco campanello di porcellana. Premette il pulsante, ma non udì alcun suono. Provò ancora, ma inutilmente: chi sa da quanto tempo quel campanello era fuori uso. Decise di bussare, prima adagio poi con forza.

Dall'alto lo raggiunse una voce di donna, roca e con un forte accento dialettale.

«Chi vuole?»

L'inglese si affacciò alla tromba delle scale.

«Cerco il pittore Tagliaferri.»

«Cosa?»

L'uomo salì un'altra rampa di scale e raggiunse la vecchia portinaia.

«Cerco il pittore Tagliaferri.»

La risposta fu piuttosto sgarbata: «Qui non abita nessun pittore. Stanno dall'altra parte, i pittori».

L'inglese fece per trattenerla, ma la vecchia, che brandiva una scopa e non aveva l'aria socievole, salì le scale biascicando qualche cosa di incomprensibile. Lui ridiscese, ripassò davanti all'interno 13, lanciò un'occhiata perplessa alla porta e decise di andarsene.

Aveva già disceso qualche gradino quando, alle sue spalle, udì aprirsi cigolando proprio la porta dell'interno 13. Si fermò e guardò in su.

Nel vano della porta appena dischiusa era apparso il volto di una giovane donna. Dimostrava poco più di vent'anni, era molto pallida e aveva grandi occhi verdi, intensi ed espressivi. Una capigliatura dorata, folta e mossa, le incorniciava il viso.

«Lei cerca Marco, vero?»

Il timbro della voce era basso, calmo e insinuante.

«Sì» disse l'inglese. «lo sono...»

«Lo so, lo so. Ben arrivato. Marco mi ha detto di lei. Mi scusi se non le ho aperto subito. E anche ora mi perdoni se non la faccio entrare: non sono del tutto vestita.»

Dal vano della porta si vedeva un piede nudo. La ragazza guardò l'inglese, che era rimasto leggermente sconcertato, e sorrise. «Marco purtroppo non c'è. Ma l'aspettava ieri. L'ha attesa tutto il giorno.»

«Mi dispiace. Sono venuto in auto e non ho calcolato bene il tempo. Ho degli amici a Firenze, e mi hanno trattenuto.»

«Peccato, perché Marco ieri si era tenuto libero per lei» disse la ragazza senza smettere di guardare il volto dell'inglese. «Ad ogni modo l'aspetta a cena stasera.»

«Qui?»

La ragazza trasalì, ma si riprese subito.

«No, non qui. Alla Taverna dell'Angelo, in Trastevere: è lì che andiamo di solito. Se vuole, posso accompagnarla io. Lei in quale albergo alloggia?»

«In nessun albergo, per ora, e il guaio è che non ho nemmeno prenotato. Ma telefonerò all'ambasciata e mi farò indicare...»

La ragazza lo interruppe con un nuovo luminoso sorriso.

«Vada all'albergo GaIba, a nome mio. È sulla scalinata di Trinità dei Monti: sono sicura che si troverà molto bene.»

«D'accordo. Ci vado subito.»

«La direttrice è una mia cara amica. La vedo quasi tutte le sere. Basterà che lei dica che la manda Lucia. Si ricorda? Albergo GaIba, Trinità dei Monti, signora Giannelli. Maria Luisa Giannelli. A nome di Lucia.»

«Lucia e poi?»

«La signora Giannelli mi conosce benissimo. Basterà che lei dica Lucia.»

«Ho capito, è una parola magica» disse sorridendo l'inglese. «E per stasera? Vuole che venga a prenderla?»

Lucia voltò il capo e lanciò un'occhiata verso l'interno. Tornando a guardare l'inglese, cercò di mascherare un filo di imbarazzo.

«No, non posso aspettarla qui. Ci vediamo alle dieci ai piedi della scalinata. Lei conosce la città?»

«Un poco.»

«A questa sera, allora. E... benvenuto a Roma.»

Sulle ultime parole, pronunciate con una sfumatura ironica appena percettibile, Lucia richiuse lentamente la porta. L'inglese si trattenne un momento per annotare su un taccuino le indicazioni avute dalla ragazza.

Un passo pesante provenne dalle scale. Era di nuovo la vecchia portinaia, che gli ripassò davanti senza guardarlo, come se non lo vedesse. L'inglese discese a sua volta le scale, mentre la portinaia sparì lungo un corridoio.

Situato in prossimità della scalinata di Trinità dei Monti, quasi in cima, l'albergo GaIba era piccolo ed esclusivo, frequentato da una clientela molto raffinata, costituita in prevalenza da stranieri. L'interno era decisamente “inglese”, con un arredamento che in qualche modo ricordava il famoso caffè Babington di piazza di Spagna.

Mentre un facchino si occupava dei bagagli, l'inglese, che aveva ancora con sé la borsa come se gli fosse particolarmente preziosa, sostò davanti al banco della reception. Il portiere, dall'aria compita ed efficiente, gli si fece incontro.

«La signora Giannelli viene subito, signore, comunque mi ha già detto di assegnarle una delle camere migliori, che guarda sulla scalinata. Se intanto vuole favorirmi il suo passaporto...».

L'inglese portò la mano ad una tasca, ma si fermò ad ammirare una bella donna alta e bruna, sulla trentina, apparsa sulla soglia dell'ufficio, direttamente comunicante con la reception.

«Buon giorno, signore. Aveva chiesto di me?»

«La signora Giannelli, vero? Sono un amico della signorina Lucia. È lei che mi ha mandato qui.»

Il volto della Giannelli non mutò la sua espressione di cortesia professionale.

«La signorina Lucia? Lucia e poi?»

«Oh Dio, non saprei. Ha detto di dirle cosi: Lucia, e basta.»

«Mi dispiace, ma non conosco nessuna signorina Lucia.»

L'inglese si stupì: «Ma come non la conosce? Dice che vi vedete quasi tutte le sere... Una ragazza con dei grandi occhi verdi, molto pallida. Un tipo interessante: non si direbbe una ragazza di oggi.»

La Giannelli sorrise, e i suoi occhi nerissimi ebbero un lampo di malizia.

«Vuol dire che me la presenterà lei. Comunque, le    mie serate di solito non le passo in compagnia femminile.»

«Quand'è così...»

«Spero che non vorrà cambiare albergo per questo. Evidentemente deve esserci un equivoco, ma lei si troverà benissimo qui, anche se non conosco nessuna Lucia. Posso far portare in camera i suoi bagagli?»

L'inglese era perplesso, ma recuperò subito il suo abituale stile.

«Certo, certo» disse, porgendo alla direttrice il passaporto. «Per favore, può cercare sulla guida telefonica un Marco Tagliaferri in via Margutta 53/B? Se c'è me lo faccia chiamare.»

«Subito, signore.»

La donna incominciò a sfogliare la guida telefonica. L'inglese si avvicinò al banco di un piccolo, delizioso bar.

«Uno scotch, per favore.»

Mentre il barman si apprestava a servirlo, l'inglese si voltò a guardare la Giannelli: aveva trovato il nome sulla guida e stava componendo un numero al telefono. Con il ricevitore incollato all'orecchio, si rivolse ad uno dei facchini.

«Prenda anche la borsa del signore.»

L'inglese, che aveva deposto la borsa sul banco del bar, fece un cenno di diniego.

«No, grazie. Non è necessario.»

La Giannelli depose il ricevitore e raggiunse l'inglese al bar.

«Ho trovato il numero, ma non risponde nessuno. Se vuole, riprovo più tardi.»

«D'accordo, signora Giannelli. La ringrazio.»

La donna tornò alla reception per trascrivere sul registro i dati del passaporto.

L'inglese, col bicchiere in mano, lasciò il banco del bar e mosse qualche passo guardandosi intorno. La borsa era rimasta sul banco. Di sottecchi la Giannelli fissò la borsa, poi osservò l'incerto movimento dell'inglese, che aveva un'aria pensosa e pareva stesse aspettando qualcuno.

Improvvisamente l'attenzione dell'uomo venne attratta da una musica d'organo: una sequenza di accordi gravi e struggenti. Posato il bicchiere, si mosse in direzione della musica, che proveniva dalla piccola sala della televisione, attigua alla hall.

La saletta appariva deserta. Era arredata in modo semplice ed elegante: alcune grandi poltrone con gli appoggiatesta foderati di stoffa bianca. Mancando le finestre, la sola luce proveniva da un televisore. Stavano trasmettendo un concerto di musica classica: due mani dalle lunghe dita si muovevano agili e sicure sulle tastiere di un organo monumentale.

L'inglese si ritrasse, ma quando stava per lasciare la sala si sentì chiamare da una voce femminile.

«Edward!»

Si volse, sorpreso: una delle poltrone era occupata da una donna intenta a seguire il concerto.

«Olivia! Beh, è incredibile! Ma cosa fai qui?»

La donna, tutta raggomitolata nella poltrona, si alzò sorridendo. Proprio allora il concerto si concluse e apparvero le immagini di un folto pubblico che applaudiva calorosamente.

Olivia spense il televisore e accese la luce, poi a braccia aperte andò incontro all'inglese.

«Aspettavo proprio te, Edward. Lo sai che sono un poco maga, no?»

Era una donna molto bella, anche se un poco sciupata; era dotata di autentica classe e nello sguardo aveva qualcosa di triste, di elegantemente disperato.

«Maga? Non dire sciocchezze» disse Edward sciogliendosi dall'abbraccio. «Piuttosto, raccontami: che cosa fai a Roma?»

«Che cosa faccio a Roma? Semplicissimo. Ci abito, da un sacco di tempo. Tu piuttosto...»

«lo arrivo in questo momento. Nemmeno il tempo di salire in camera.»

Lo sguardo di Olivia diventò ironicamente indagatore. «Da solo?»

«Solissimo. Sono qui per lavoro. Ma tu... ti confesso che non avrei mai immaginato di trovarti in Italia. Pensavo che...»

Olivia lo interruppe accarezzandogli una guancia. Aveva i tipici atteggiamenti delle donne che giocano sempre a offrirsi. «Vuoi dire che mi hai pensato qualche volta?»

«Ma certo. Solo che ti pensavo nel Kent, accanto a tuo marito.»

«Morto.»

Sembrava riferirsi ad un estraneo. Edward stette al gioco.

«Morto. Ma come?»

«Di noia» disse Olivia con un leggero sospiro. «Era un uomo che amava stare solo con i suoi pensieri, e i suoi pensieri erano talmente noiosi che è morto. Avresti dovuto vederlo: era un morto molto distinto.»

Ma dietro le battute spregiudicate di Olivia, Edward percepì una forte tensione.

«Anche tu però non hai l'aria di divertirti molto. Sola a quest'ora davanti alla televisione. Ad assistere a un concerto. Devi essere molto cambiata.»

«Trovi? Sarà l'Italia. Non avrei mai dovuto tornare a Roma. In Inghilterra impazzivano tutti per me. Anche tu un poco, no?» Guardò Edward con civetteria ma subito cambiò espressione. «In Italia mi annoio.»

«Attenta, è la stessa malattia di tuo marito.»

«Già. E così guardo la televisione.»

«Scusa, ma da quando ti interessi alla musica classica? Quando eri a Londra non andavi più in là dello shake

«Ti ricordi? Ballerina eccezionale, vero? Beh, adesso mi piacciono i grandi. Se avessi conosciuto Beethoven, credo che avrei anche potuto tradirti con lui.» Prese sotto il braccio Edward. «Su, andiamo. Mi offri qualcosa da bere?»

«Volentieri. Speriamo che ti basti il bar dell'albergo.» «Non preoccuparti. Ormai sono una vedova quasi morigerata.»

Lo sguardo penetrante della Giannelli li seguì mentre si dirigevano verso il bar.

Olivia si rivolse al barman: «Il solito: doppio. Dobbiamo festeggiare. Uno anche per il signore». Osservò Edward con malizioso interesse. «E così, sei solo. E io no. Peccato, era una buona occasione. Ma non è detto. Saresti capace di eliminare un rivale?»

Le battute di Olivia erano spesso imprevedibili. Edward sorrise molto divertito.

«A dire la verità sono in Italia per altri scopi. Comunque, sentiamo: di chi si tratta?»

Olivia, che stava appoggiata al banco del bar, si fece di colpo seria.

«Di quel bestione che sta arrivando alle nostre spalle.»

Si girò di scatto sul sedile e anche Edward si voltò.

Un uomo grande e grosso, sulla cinquantina, stava venendo verso di loro. In gioventù doveva essere stato un bell’uomo – notò Edward – ma ora il volto era gonfio, affaticato. Vestiva con eleganza trasandata, ma aveva qualcosa di sgradevole: l'aria di un uomo finito, di un rottame.

Olivia lo accolse con enfatica affettuosità.

«Lester, tesoro, ti presento Edward. Edward, tesoro, ti presento Lester. Sono sicura che diventerete amici.»

«Salve» disse Lester.

Edward rispose chinando leggermente il capo.

Abbandonando i due uomini che si fronteggiavano con un evidente imbarazzo, Olivia afferrò il bicchiere e bevve una lunga sorsata.

Lester le si avvicinò: «Su, muoviti, è ora di andare».

«Calma. Quando avrò finito di bere.»

Lester le strappò il bicchiere dalla mano e bevve d'un fiato ciò che restava dello scotch. Olivia incassò con ottimo stile.

«Carino, vero?» disse a Edward. «È il compagno della mia vita. Un eroe! Peccato che invecchi a vista d'occhio.»

Lester si sforzò di apparire disinvolto e spiritoso: «Puoi accusarmi di tutto, cara, fuorché di non averti avvertito che sarei invecchiato. Come te, del resto».

Olivia si rivolse a Edward, che appariva imbarazzato da quella sgradevole schermaglia: «Ha ragione. Il torto è mio. Per principio non credo mai a quello che mi dice. Ma è veramente un eroe. Hai mai sentito parlare del Barone Rosso? È lui: l'asso dell'aviazione tedesca. E pensare che io adoro gli inglesi». 

Edward tentò di stare al gioco.

«Complimenti, barone.»

Ma Lester aveva l'aria di non divertirsi affatto.

«Non le dia retta. È completamente suonata. Sono irlandese, io, e non ho mai combattuto per i tedeschi. Mi chiamo Sullivan.» Diede un'occhiata all'orologio, che portava dalla parte interna del polso. «Olivia, tesoro, vogliamo andare?»

«Come no, angelo? Ciao Edward, sono felice che tu sia qui.» Si fece improvvisamente seria. «Lo dico per davvero.»

I due uomini si salutarono con un cenno del capo.

Usciti Olivia e Lester Sullivan, Edward recuperò la sua borsa e tornò davanti al banco della reception, sul quale la signora Giannelli era intenta a scorrere un registro.

«La mia chiave, per favore.»

«Eccola, numero 33. Secondo piano.» Presa la chiave, Edward si avviò verso l'ascensore, ma la donna lo richiamò. «Se ha con sé degli oggetti di valore la consiglio di affidarli a me. La direzione non risponde dei valori non depositati in cassaforte.»

Edward guardò per un attimo la borsa e sorrise: «La ringrazio, ma non ho proprio nulla che meriti di essere depositato».

Entrò nell'ascensore, seguito dallo sguardo attento e un po' furtivo della Giannelli. Uno sguardo che era dotato di un'inquietante fissità.

La stanza 33 era piuttosto ampia, arredata con gusto neoclassico. Una grande finestra, incorniciata da un pesante tendaggio, guardava sulla casa di fronte, situata accanto alla gradinata di Piazza di Spagna. Un prezioso specchio era incastonato in una cornice dorata. Alle pareti c'erano quadri e stampe che riproducevano vedute romane, e di valore era certamente una pianta di Roma del Cinquecento.

Edward si tolse la giacca e allentò la cravatta, poi passò nel bagno e aprì i rubinetti della vasca. Anche la saletta da bagno era in stile primo Ottocento, con un'ampia vasca e una pesante rubinetteria.

Tornato nella stanza, l'inglese aprì una delle valigie e incominciò a vuotarla: tirò fuori anche parecchi libri, che gettò sul letto. Per caso lanciò un'occhiata verso la finestra e vide che, da una finestra della casa di fronte, un uomo lo stava guardando. L'uomo, accorgendosi che Edward l'aveva notato, si affrettò a lasciar cadere una tendina.

Edward prese i libri dal letto e li radunò su un tavolo. Guardò l'ora con impazienza e, in attesa che l'acqua del bagno fosse pronta, si sdraiò sul letto. Ma ancora una volta la sua attenzione fu attratta dall'uomo della casa di fronte, che di nuovo aveva socchiuso la tendina e sembrava spiarlo. Si alzò di scatto, andò alla pesante tenda e con un gesto brusco la serrò in faccia all'indiscreto. Ma con sorpresa notò che sul tendaggio chiuso era trapunto, o dipinto, un arazzo dal soggetto sinistro, macabro: una processione di incappucciati senza volto, in un paesaggio pietroso e scabro. Dopo alcuni istanti ebbe l'impulso di distogliere lo sguardo.

Si mosse, dirigendosi al telefono che era accanto al letto.

«Per favore, mi chiama ancora quel numero? Marco Tagliaferri, via...»

Prima di terminare la frase, udì la voce della Giannelli.

«Subito, signore.»

In attesa della comunicazione, Edward tornò a sdraiarsi sul letto, abbandonando su una spalla il ricevitore del telefono. Guardò in alto, verso il soffitto, sul quale era affrescato un cervo assalito e azzannato da una muta di cani famelici.

Decisamente chi aveva arredato la stanza non si era molto preoccupato di favorire il sonno degli ospiti, pensò Edward cercando di scherzare, mentre ascoltava i segnali della chiamata.

Il telefono squillò a lungo, ma nessuno rispose. Di nuovo si inserì la voce della Giannelli.

«Spiacente, signore, ma nessuno risponde.»

Edward depose il ricevitore e andò a piazzarsi davanti allo specchio. Indugiò a lungo ad osservare il proprio volto riflesso nel vetro; si domandò perché lo facesse, poiché quell'azione non gli era abituale.

Dopo il bagno scelse un abito ben stirato e scese nella hall. Alla Giannelli domandò di indicargli un itinerario. La donna dispiegò una pianta moderna della città e con una matita tracciò un percorso.

«Qui siamo noi. Via Gregoriana... via Sistina, sempre dritto attraversa il Tritone e in cima alla salita trova le Quattro Fontane. È facilissimo, non può sbagliare. Ad ogni modo, tenga pure la carta.»

«La ringrazio» disse Edward avviandosi all'uscita. Indossava un impermeabile chiaro e leggero e aveva con sé la borsa.

«Vuole ancora provare quel numero che prima non rispondeva?»

Edward rifletté per qualche istante.

«Grazie, faccio io.»

La Giannelli disse: «Il numero è...».

Ma Edward non la senti. Entrò nella cabina telefonica a pochi passi dalla reception e con sicurezza formò un numero. Mentre ascoltava gli squilli del telefono, il suo sguardo incrociò quello della Giannelli.

Stava per deporre il ricevitore quando, improvvisamente, udì la voce di un uomo. Una voce flebile e lontana.

«Pronto.»

«Pronto» disse Edward emozionato. «Parlo con Tagliaferri?»

«Sono io. Con chi parlo?»

«Oh, finalmente la trovo! Deve scusarmi per il ritardo, la signorina Lucia le avrà spiegato... So che mi ha aspettato tutto ieri.»

«Mi perdoni, ma io non capisco.»

«Parlo con Marco Tagliaferri, il pittore?»

«No, il pittore Tagliaferri è morto.»             

Interdetto, Edward tentò di replicare, ma subito avvertì il «clic» della comunicazione interrotta.

Con lentezza depose a sua volta il ricevitore. Uscì dalla cabina e guardò verso la Giannelli, la quale ricambiò quello sguardo con un'indecifrabile intensità.

(pp. 7-19)

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