Primo il corpo

II

All'andata l'avevo tagliata fuori dal mio itinerario, ma qualcuno mi aveva detto che Bourges era una città pezzente, di contadini e di pastori, e davvero ne aveva tutta l'aria.

A.: Ma non pioveva e si

era fatto buio?

Infatti. Ai lati del corso principale si disegnavano le sagome di stamberghe e tuguri, miseri stabili costruiti solo per dare un tetto qualsiasi alla gente, senza alcuna intenzione di umano decoro.

La città ideale deve invece impiegare la bella architettura per qualsiasi edificio, anche per i non abbienti.

B.: Già, ma la spesa in

tal caso chi se l'accolla?

C.: Il padrone, se non

vuole essere anche lui un

pezzente. Certo, alla città 

ideale compete un signore

ricchissimo.

A proposito, di' al signore tuo padre che domani voglio i cinque scudi della mesata scorsa, i miei fornitori debbono pur essere soddisfatti e voi sapete come sono i bottegai, sempre più pretenziosi e insolenti. Dunque, fa' vedere come hai rifatto questa testa.

Sì, è graziosa, ma è falsa. Manca l'ossatura, c'è una frittata di colore ma nessuna idea di ciò che sta sotto e determina la forma.

Un giorno o l'altro dovrò pur avvezzarvi all'anatomia. Ma torniamo a Bourges. Mi avevano detto anche che vi si trovava un duomo, una chiesa di maniera nordica adorna di ricche vetrate, si sa che i preti stanno e si sistemano bene in questo mondo sebbene lo disprezzino, ma mi riprometteva di vedere meglio l'indomani, quando le cose non fossero state più sotto la coltre del buio e dell'acqua.

Mentre andavo rimuginando che terra e pietre lì dovevano essere di grana poco buona per edificare e fantasticavo di importare la nostra arte, muraria, Firmino mi domandò come stavo a quattrini.

E questa era la situazione. Dopo aver investito nell'asino la parte maggiore dei miei modesti averi qualcosa ancora mi era rimasto, giusto quel poco che bene amministrato doveva bastarmi per far ritorno a Firenze. Avevo dei pensieri per come pagare il debito che mi aveva consentito di intraprendere il viaggio, ma alla fin fine, com'era già accaduto, avrebbe pagato il mio patrigno, cui il denaro n mancava. Anche voi dovreste educare così i vostri genitori e vi troverete bene.

Andammo per un dedalo di vicoli stretti e neri dove i dodici zoccoli dei nostri asini rimbombavano come i passi di un esercito.

Il signor François Villon, il signor poeta che ancora non avevo visto in faccia e chi sa cosa avrei dato per poterlo fare, dico per dire, si reggeva oramai a malapena sul busto e oscillava paurosamente da una parte e dall'altra, fortuna che l'asino procedeva con passo spedito ma costante.

Firmino non perdeva d'occhio il suo maestro e tanto ci guidava con sicurezza sempre orientandosi senza esitare.

Così giungemmo ad uno spiazzo, stallatico o stazione di posta, una piana fangosa che dal riverbero luminoso proveniente da una casa che stava sul fondo si rivelava percorsa in ogni senso dai solchi scavati, lasciati dalle ruote dei carri, molti dei quali si intuivano accostati alle baracche, abitazioni o stalle, che chiudevano quello spiazzo ai lati, così.

Muggiti sommessi e latrati facevano ala sonora nostro sciaguattante incedere. Cosa c'è?

C. : Devo andare a mingere,

ma non voglio perdere

il vostro racconto.

Falla lì in quel mastello.

B.: Vòltati, non abbiamo

bisogno di vedere quel

tuo verme.

C. : Perché non vieni a

sgocciolarlo?

Basta, sporcaccioni, io con voi ho troppa pazienza.

A.: Avete mai provato a

diluire i colori con l'orina?

Mentre il signor François in groppa all'asino aspetta fuori al riparo precario di una bassa tettoia, Firmino ed io entriamo nell'unico ambiente vagamente illuminato.

La locanda del Leone, come voleva indicare l'orribile dipinto dell'insegna.

Un fumo acre e denso di legno verde, un odore di vino grosso, un lezzo di panni sporchi, sudore rappreso, pecora bruciata, escrementi di vacca, il rumore concitato di molte voci e i ceffi degli avventori che occupano i tavoli, tutto questo ci accoglie.

B.: E com'era Firmino

alla luce?

Scoprii che in effetti era un uomo giovane, gli avrei dato un venticinque anni, un rossiccio di pelo ma dai tratti abbastanza fini guastati purtroppo dal naso robusto che già avevo notato.

Firmino parlò con l'albergatore, un vecchio che mentre ascoltava o interloquiva mai perdeva d'occhio ciò che avveniva nel locale.

Otteniamo una stanza, ma a parte, fuori, lungo fila delle stalle, e l'albergatore assicurò che non era una stalla, bensì un alloggio confortevole.

Firmino pagò e, perché ridi tu? persi del tempo a cercare il denaro che non voleva saperne di uscire dalla scarsella, e prima ancora dalla gabbana tanto l'avevo nascosto bene per paura di perderlo. Dissi a Firmino che più tardi gli avrei dato quel terzo che mi toccava pagare, ma non fatemi sprecare il fiato con stupidi particolari che rallentano la narrazione.

A.: Maestro io starei

sempre a bocca aperta a

sentirvi parlare.

Una serva sordomuta, peccato perché di faccia era umana, BIanche l'aveva chiamata il padrone, venne a farci strada con un lume.

Il nostro alloggio sotto era stalla comune, dove ricoverammo gli asini, e sopra era stanza, una di molte che si affacciavano su un ballatoio di legno che pareva sul punto di crollare.

L'arredamento era un tavolaccio, alcuni sgabelli due piuttosto luridi giacigli. Però c'era anche un grande camino, che la serva BIanche si affrettò ad accendere.

Firmino con mille riguardi e attenzioni a far salire le scale al signor François.

C.: E com'era? com'era?

Aspetta. Subito si distende su un giaciglio. Appena il fuoco attacca e morde gli sterpi con decisione la stanza si illumina a semicerchio, una resurrezione per i miei occhi ansiosi di riprendere a vedere, e BIanche si congeda mentre Firmino era sceso a scaricare gli asini per lasciarli mangiare in pace, finalmente posso osservare questo François, questo maestro della Sorbona ma a mio parere in rutti.

Smettetela, che qui non è più il caso di ridere.

Cristo di Dio. A parte la miseria di cui era ricoperto, e sarà stata anche la sofferenza che gli tendeva i lineamenti e gli conferiva un diafano pallore, quel François aveva un aspetto non meno che divino.

Esagero, penso, mi dico Leonardo i tuoi occhi ora sono allegri, disposti a far festa, ma quest'uomo com'è, questo François, il suo volto segnato dalle connotazioni pure della virilità e della elegante forza, sembra contornato, circonfuso di luce come d'aureola, la barba e i lunghi capelli sono fili d'argento e d'oro mescolati insieme.

Se aveva un'età poteva essere sulla quarantina o poco più, e altissimo, tanto che lungo disteso i piedi sopravanzavano il giaciglio.               

Non posso dimenticarlo, la sua immagine è incisa nella mia mente, ma per quanto abbia provato più e più volte non mi riesce di dipingerne ritratto. Beh, vi siete fatti pallidi? E tu, perché tremi?

A.: Maestro, dicono che

certi diavoli sono talmente

belli che la memoria di chi

li ha visti è gelosa e rifiuta

di secondare la mano

che vorrebbe ritrarli.

C.: Quel signore, quel

François era proprio un

uomo in carne e ossa?

 

Si teneva le mani sul ventre e non mi sfuggì che le sue dita erano sporche di sangue. Ma per la verità era come se di sopra il volto e sotto il ventre e le dita sporche di sangue non facessero corpo in uno stesso uomo.

In ginocchio come mi trovai, in contemplazione, lo osservai, lo spiai e non ricordavo se non dell’arte alcuna immagine sacra o profana che potesse stargli alla pari, eppure anche allora per la mia inclinazione e dedizione alla pittura avevo alta esperienza di figure.

È pur vero anche che facilmente le sembianze e le forme umane, specie maschili di armoniosa struttura, mi suggestionano troppo e so, e sapevo allora, che devo guardarmene.

Ma François era una figura adorabile.

Il mio uomo ad un certo punto si anima, al termine di un lungo sospiro apre gli occhi, guarda in alto e quindi li volge su di me.

Non erano occhi comuni se come si dice e come credo gli occhi sono luci dell'anima e testimoniano intensità e forza dell'intelligenza.

François mi fissa a lungo mentre io pregavo e confidavo di piacergli, mi abbraccia in uno sguardo, e io sono come stordito, non so se sapete com'è la vertigine che dà un caldo abisso. Il suo corpo sembrava aver dimenticato la sofferenza oppure il dolore forse gli aveva offerto una tregua.

Chi sa quanto tempo trascorse così dolcemente fino a quando credetti di dover parlare, di dover dire qualcosa.

Se siete ferito, signore, posso, vorrei aiutarvi.

Lentamente scuote il capo senza smettere di fissarmi.

Sei giovane, ancora un adolescente, mi dice. La sua voce, oramai non più irritata era, come dire, sì avrei voluto che fosse stata diversa, profonda e melodiosa, invece era cupa e fessa come una campana di legno.

B.: Dunque, era imperfetto,

che soddisfazione.

C. : E perché?

B.: Così, rientra meglio

nella nostra natura.

A.: Invece io avrei preferito

che avesse una voce divina.

Maestro perché non ci avete mentito?

Non mi piace, lo sapete, dare troppa corda alla fantasia. Comunque è il mio destino, cari discepoli, di voler troppo guardare, esaminare, smontare, e così non c'è perfezione che regga. Avrei dovuto costruirlo io quel François a partire dal volto e credo che l'avrei fatto perfetto. Ma state pur certi che chi sa quanti uomini dovevano essere occorsi per metterne insieme uno solo come quello.

Mi domandò il nome, poi come affaticato il suo sgu               ardo passò oltre le mie spalle.      

Il fuoco, del fuoco finalmente, dov'è Firmino? domandò.

Viene subito, ma se volete comandare, dissi io. Voi lo sapete, cari discepoli, quanto di carattere sono orgoglioso, superbo addirittura, pure so piegare il ginocchio, conosco l'umiltà quando debbo servire la bellezza.

"François si portò una mano davanti agli occhi e mosse le dita guardandosele, delle lunghe dita ossute annerite dal sangue rappreso. Mi pareva secco e dissi che forse la ferita, perché di una ferita doveva trattarsi, si era rimarginata, chiusa.

Fra la sua barba nasce l'abbozzo di un sorriso, ho sete, mormora. Non vedevo che un secchio pieno d'acqua, nella quale affondava un mestolo di legno. François comprese e disse ridendo no, mai acqua per me, Leonardo.

Mi sentii felice che mi avesse chiamato per nome. Ebbi un piacere intenso, simile a quello che provavo bambino quando mia madre mi accarezzava ripetendo piano Leonardo, come per convincersi meglio del suo possedermi possedendo affettuosamente il mio nome.               

Che sia questa la suggestione intima che si dice propria della poesia?

A.: Ma come, voi maestro

ridete sempre della poesia,

sbeffeggiate i poeti.

C.: E con molta ragione.

D'accordo, certo, ma in assoluto possiamo anche pensare che esista della buona poesia, o meglio una ragione della poesia. E questa cosa può essere? Evocare, pronunciare in un certo modo i nomi delle cose, delle persone, significa probabilmente ricrearle, infondere loro un nuovo spirito rivelatore insieme a una linfa ineffabile, aggiungere vita alla vita.

B.: Ma questa è la pittura.

Sì, ma non so come spiegare altrimenti il turbamento che provavo. Leonardo, ripeté François, ed ecco che Leonardo ero io, lì in quel momento in tutta la mia carne e la mia anima, senza passato e senza futuro, ma ben vivo nel battito che mi martellava le tempie.

Dissi non avevo mai visto un poeta, Firmino mi ha detto che voi siete un poeta, signore.

Puoi chiamarmi soltanto François se lo preferisci e stava per aggiungere qualcosa ma io dissi che siate un poeta non lo dice il vostro abbigliamento che certo è fatto per mantenervi incognito.

Ma la voce, stavo per dire ma mi trattenni, ma tutta la vostra persona non può essere che l'essenza stessa della poesia.

B.: Dicendogli così

non eravate ipocrita, no?

Credo di no, ma sta a sentire. Sul suo volto si aprì un nuovo sorriso, divertito ora. Se poesia è invocazione di santi, lode a re e principi e sospiri d’amore, allora io non sono un poeta.

Ma tu non devi confondere il poeta con la poesia, disse. Questa è una prostituta.

C.: Una prostituta?

Proprio una prostituta, avida e allegra, ma non gelosa sta' pur certo, e il poeta è un uomo come tutti, anzi spesso peggiore di tanti. Vedi, io perdo sangue come un maiale squartato, anche se dal maiale mi differenzio perché ho in corpo più vino che sangue.

Sfiorandolo appena, con una mano che mi ero pulito gli accarezzai il viso. I lineamenti di François sembravano meno marcati, distesi, perché il pallore era coperto dalla luce rossastra del fuoco.

Si mise ad osservare le volubili e guizzanti fiamme che si protendevano, si annullavano a forare il buio, non so cosa gli stava passando per la mente, ma dai suoi occhi cominciarono a sgorgare delle lacrime.

Per non piangere anch'io, andai in cerca di qualche cosa da fare. Trovai un bacile e gli versai dentro dell'acqua, lavai poi le mani di François che mi lasciò fare rimanendo assorto.

Una coperta piegata e intrisa di sangue gli cingeva l'addome. Avrei voluto scostarla, toglierla, per scoprire e lavare la ferita, ma François me lo impedì con un cenno di diniego.

Andai a buttare l'acqua sporca dalla finestra, un pertugio che di rado doveva essere servito a far passare l'aria e mentre guardavo la pioggia che scendeva greve e monotona mi giunse dall'interno come un mormorio di preghiera, un borbottio che subito si fece distinto.

Non sono, si vede bene,

figlio d’un angelo, non ho diademi

di stelle né di altri astri.

Mio padre è morto, Dio abbia la sua anima.

Quanto al suo corpo, giace nella tomba.

So che mia madre dovrà morire,

e anche lei sa, la povera donna,

che non resterà nemmeno suo figlio.

Io so bene che poveri e ricchi,

saggi e folli, preti e laici,

nobili, contadini, prodighi e avari,

piccoli e grandi, belli e brutti,

dame con la scollatura,

di qualsiasi condizione,

con qualunque acconciatura,

senza scampo sono preda della morte.

Mentre sto con gli occhi chiusi sento che gli ultimi versi vengono recitati a due voci.

Era rientrato Firmino e aveva deposto per terra le bisacce e un capace otre di vino. Dietro di lui venne la serva, la sordomuta BIanche che recava pentola fumante, scodelle e pagnotte di pane. Il suo sguardo mobile, ansioso, indugiò sul ventre di François, sulla coperta sporca di sangue nero. Lui le fece cenno di avvicinarsi e le porse una moneta.

Dovevate vederla, BIanche si prostrò più volte, tendo dei mugolii di riconoscenza che a me facevano un po' ribrezzo, poi venne attorno a me Firmino con l'intenzione di rendersi utile.

Firmino scherzando cacciò fuori la lingua e con le dita a forbice faceva mostra di tagliarsela e che stupida annuiva e rispondeva con un ridere di gola che sembrava un frenetico singhiozzo. Finalmente se ne andò, dopo aver fatto capire che sarebbe tornata più tardi per preparare un terzo giaciglio.

Abbiate pietà, abbiate pietà di me,

amici, se non vi chiedo troppo!

Dentro un buco mi trovo, non sotto fronde ombrose,

in questo esilio che mi è stato imposto

dal destino, come Dio ha voluto.

Amanti, giovani e ragazzi, e anche voi bambini

che danzate, saltate e fate capriole,

guizzanti come frecce, come aghi sottili,

dalle gole che paiono squille argentine,

lascerete dunque solo il povero Villon?

Nella cucina tengo i vecchi quadri, quelli mi hanno fatto credere che la mia strada era la pittura. Si fronteggiano due grandi tele dove può vedere Bianca nuda, ma solo il corpo, il viso è di un'altra donna, copiato da una cartolina. In un ritratto è distesa con il busto un poco rialzato come l'Olympia di Manet, con una mano a pudico e nello stesso tempo invitante schermo del sesso, ricordo che la sua esile mano copriva ben poco, lei mi chiese di ridurre nel dipinto la straripante macchia del pube. Nell'altro è in piedi in offerta sacrificale, si presenta di spalle e certo richiama le isolane di Gauguin, la carne scura bruciata, così mi piaceva vedere la candida pelle di Bianca, grandi natiche levigate e tanto piene da rifrangere quasi a specchio in certe incidenze di luce. Intorno, tappezzeria delle esigue pareti, ancora quadri di donne e brumosi paesaggi, partigiani fucilati, amici scomparsi.

Allegri canterini spensierati,

gaudenti, ridanciani, dalla lingua sciolta,

leggeri perché l’oro non vi pesa nelle tasche,

pronti allo scherzo e un poco sventati,

non indugiate, perché il vostro amico sta morendo.

Dei vostri canti, rondò e mottetti,

quando sarà morto gli farete un dono!

Dov’è rinchiuso non c’è mai luce né buio,

circondato da spesse muraglie;

lascerete dunque solo il povero Villon?

Mi preparo da mangiare mentre ascolto al registratore, fra canzoni e lunghe sequele di studiate bestemmie e di elaborati improperi e insulti, un modo questo per esercitare la dizione, certi ricordi della lotta partigiana che ho dettato prevedendo che fra non molto deciderò di smettere di parlare oppure comunicherò soltanto per banalità assolute, essenziali come le strutture anatomiche, ovvie eppure auree perché corrispondono esattamente e reciprocamente alle funzioni che esplicano.

Dice la mia voce:

Non avevo ancora diciotto anni ero uno studente ma non andavo a scuola e non facevo niente di preciso

la mia prima educazione politica se così posso chiamarla avvenne naturalmente respirando l'aria di casa

allora c'era una guerra una guerra che non aveva più fronti e mio padre decise che ero abbastanza cresciuto per ascoltare i suoi sfoghi le sue indignazioni i suoi risentimenti contro il governo il regime oppressivo tuttavia i dialoghi con mio padre avvenivano nel cerchio della famiglia con nulla di eroico

mio padre proveniva da una cellula istiocitaria

era il frutto di una cariocinesi atipica ed era sfuggito alla caccia degli spietati linfociti e mi aveva generato e anch'io avevo sia pure dissimulato qualche carattere deviante come accade spesso fra gli istiociti che pare siano stati sempre all'avanguardia del proletariato cellulare e queste cose credo siano importanti per spiegare l'indirizzo della mia maturazione e la mia decisione di combattere il corpo

nei geni dei miei cromosomi inquieti avevo chiara la traccia viva delle mie cellule ascendenti e memoria ferita dall'orribile sfruttamento e superlavoro che avevano sacrificato milioni e milioni povere cellule all'esigenza della crescita del corpo e alla sua avida espansione imperialistica

ora il regime del corpo aveva raggiunto certa stabilità mirava alla conservazione del potere assoluto e con ogni mezzo dalle ferree leggi d'organo e d'apparato alle forze oppressive e sfruttatrici costituite dagli anticorpi e dai linfociti esercitava una insopportabile dittatura

incominciai a nutrirmi di proteine aberranti e diventai una cellula d'opposizione e ricordo anche se riconoscevo la necessità di tenere la bocca chiusa e di non dare troppo nell'occhio non facevo mistero del mio impulso di ribellione con certe cellule fidate ma inerti per il terrore predicavo l'insurrezione e citavo le imprese delle mitiche cellule innominabili che si sapeva erano capaci di prendere in pugno le armi e avevano abbattuto si diceva corpi anche più grossi e possenti del nostro

un giorno ma la data esatta non mi viene in mente un virus disoccupato mi domandò tranquillamente sembra la situazione di una favola ricordo che stavamo sull'argine di un canale linfatico ben annidati in un morbido tessuto interstiziale era un magnifico territorio a contenuto glucidico

mi domandò se con tutte le mie smanie me la sentivo davvero di aiutare la guerriglia che io non me n'ero accorto stava per cominciare per abbattere l'odiato sistema

accettai e per qualche tempo ripensandoci la cosa mi parve troppo semplice enorme e irreale ma ben presto l'amico virus che poco dopo sarebbe stato disintegrato dagli anticorpi mi presentò ad cellula innominabile vera e propria la prima io abbia mai incontrato e sembrava una comune cellula non si distingueva dalle altre che con lei formavano un epitelio ghiandolare

mi disse che sarei stato destinato alla diffusione degli aminoacidi clandestini cioè ai rifornimenti nutritivi delle nuove cellule innominabili che si stavano riproducendo in un organo che per il momento doveva rimanere segreto

io avrei voluto combattere subito sdoppiarmi una scissione diretta selvaggia e diventare un citofago una di quelle cellule mostruose e disperate che prima di soccombere come inevitabilmente accadeva della loro anarchica rivolta erano capaci di far fuori un intero plotone di linfociti ma la cellula innominabile pacatamente mi spiegò che la nostra lotta doveva essere distribuita su uno sconfinato fronte contro ogni punto nevralgico del corpo e il vettovagliamento era un servizio essenziale per lo sviluppo di sempre nuove cellule innominabili che hanno un metabolismo elevatissimo e si alimentano voracemente dei preziosi aminoacidi

senza alcuna cerimonia diventai così una recluta dell'esercito partigiano ed è facile capire che il nostro era un singolare esercito senza uniformi e senza caserme anche senza soldati a giudicare dal nostro aspetto di banali cellule proletarie ma dall'accanimento che i linfociti e le guardie del regime gli anticorpi mettevano nel perseguitarci dovevamo essere importanti e di noi avevano una tremenda paura le truppe regolari le cellule connettivali dell'esercito che comunque noi avevamo l'ordine di non attaccare di nostra iniziativa

solo dopo un paio di mesi seppi che appartenevo ad una formazione che si ispirava alla figura di un grande patriota ma questa notizia non mi colpì in modo particolare non mi liberò dalla fastidiosa sgradevole sensazione che forse stavo combattendo una mia guerra privata solitaria benché il lavoro clandestino che subito avevo cominciato avesse messo in contatto occasionale con qualche altro giovane partigiano che svolgeva il mio stesso lavoro finché i miei dubbi non furono dissipati un giorno quando un tale un capo che non avevo mai incontrato prima un uomo di studi seppi mi chiese se ero d'accordo di aderire al partito che incarnava gli ideali della nostra lotta in una politica e io accettai con emozione e da quel momento fui compagno fratello di chi le mie stesse idee le esprimeva con linguaggi idiomi diversi in una comunanza senza confini

le mie mansioni mi davano abbastanza da fare partivo da una tipografia clandestina sistemata nei sotterranei di una fabbrica per confondere il rumore del resto modesto delle piccole macchine da stampa di lì portavo rotoli di giornali opuscoli di agitazione manifestini

nei primi tempi invece di seguire le vie dei capillari più fuori mano i canalicoli linfatici periferici sceglievo apposta i tronchi sanguigni più grossi e passavo per le zone centrali del corpo dove era facile incontrare intere squadre di linfociti o di anticorpi e provavo un gusto di sfida nel passargli davanti col mio carico malcelato di acido desossiribonucleico o ribonucleico a seconda che il tragitto fosse d'andata o di ritorno e sapevo che se venivo fermato e perquisito mi avrebbero giustiziato sul posto ma in seguito diventai più prudente e smisi di procurarmi questi brividi artificiosi e irresponsabili

uscivo di sera col coprifuoco per attaccare manifestini fogli di propaganda politica e di incitamento all'insurrezione in certe strade dove era più che di giorno passassero cittadini capaci di leggere e anche in questa operazione notturna non mancava un motivo di spavaldo divertimento infatti appena io o il compagno che era con me perché uscivamo di solito in due appena aveva spalmato di colla di farina un pezzo di muro facevamo luce con un fiammifero per attaccare i manifestini poiché col buio poteva capitare che qualche foglio venisse incollato capovolto e non volevamo dare alla popolazione e al nemico l'impressione che il nostro lavoro si svolgesse alla cieca con l'orgasmo della fretta e della paura

nelle ore della notte la città sembrava morta ed il silenzio era così assoluto che si poteva percepire un rumore un colpo di tosse a grandissima distanza e praticamente non si correva il rischio di venire sorpresi

la corrente del sangue era un fluido caldo e silenzioso che mi accoglieva immergendomi in piacevole torpore e all'avvicinarsi della fine del viaggio riprendevo gradualmente i sensi per fremito dei muscoli che si faceva sempre più forte

malgrado le continue repressioni le piccole cellule innominabili subdolamente si moltiplicavano e si diffondevano nei più lontani distretti così quando all'interno dell'organo in cui si stava sviluppando il nostro gruppo più forte avrebbe dato apertamente battaglia mettendo in allarme tutto il corpo e scatenandone la feroce reazione sarebbe stato troppo tardi

mentre procedevo con aria indifferente ma attento a non lasciar cadere il pacco degli atomi di carbonio idrogeno ossigeno azoto sapevo che il corpo oramai era perduto.

Venite a vedere il suo stato pietoso,

uomini che godete della libertà,

che a nessuno dovete rendere conto,

se non al Signore del Paradiso:

lo fanno digiunare nei giorni di grasso,

così i suoi denti sembrano un rastrello,

non gli danno dolci, ma pane secco

e nella pancia gli balla l'acqua;

siede per terra, senza tavola e giaciglio.

Lascerete dunque solo il povero Villon?

Principi riveriti, signori, giovanotti,

chiedete grazia per me,

tiratemi fuori anche dentro un cesto;

perfino i maiali s’aiutano l'un l’altro,

e accorrono se uno di loro grugnisce.

Lascerete dunque solo il povero Villon?

Nello studio sono sparse alcune delle opere più recenti, che ho costruito adoperando le cellule degli edifici che sono i mattoni, quadrati triangoli e cataste non geometriche di mattoni usati e nuovi.

Una raccolta di stampe di arcaiche anatomie. Un protochirurgo tiene una lezione dimostrativa, con l’indice proteso indica l'epigastrio di un malato. Somiglia a Quadri di cui sfoglio il fascicolo.

«Io protochirurgo capo, messer Quadri da Viterbo, vi faccio sapere che il maligno gastrico è stato il più frequente fra i maligni di qualunque sede», immagino che dica in piedi al centro dell’anfiteatro. E quindi:

«Il nostro fervore chirurgico è certamente dei più rimarchevoli nel combattimento contro questo che è il più temibile dei maligni inventati da Nostro Signore, sia per il forte numero di coloro che se lo ritrovano in corpo sia perché tanto calamitosa è la sua prorompente intrinseca espansione così che prima che la provvidenza ponesse ferri e taglienti nelle nostre indegne mani sì e no rimanevano ai pazienti e tempo e fiato per raccomandare l'anima a Dio».

«Imponente è stato il numero degli operati, essi assommano infatti a 712, la popolazione adulta di un grosso paese, e in questo conteggio giuriamo di aver considerato soltanto quei casi ch la nostra scienza e coscienza hanno appurato sincero maligno!».

«Il numero dei maschi è superiore a quello delle femmine (469 contro 243) e anche qui è visibile il disegno divino che tende a preservare possibilmente la matrice della nostra eletta specie».

«Circa l'età, le maggiori incidenze nei due sessi corrispondono al VI decennio, cioè quando la vita è stata in massima parte spesa. Agli estremi, 8 infelici non avevano superato i 30 anni, mentre 32 appartenevano fortunati all'VIII decennio».

«Capriccioso è stato il maligno nel decidere dove situarsi. Più colpita la regione chiamata dagli anatomisti antropilorica (45%) seguita per ordine e volontà della sorte da queste altre sedi privilegiate: piccola curva (18,7%), corpo gastrico (16,1%), fondo e cardias (10,2%), grande curva (0,8%); maligni diffusi che si mangiavano tutto lo stomaco sono stati riscontrati nel 10,3% dei casi. E tutti questi numeri sono degni di assoluta perché registrati e manipolati da un monaco nostro capo speziale contabile e computista eccelso».

«I segni di malessere, i sintomi più frequenti si sono              presentati nelle seguenti percentuali: dolore (40,9%), sensazione di peso all'epigastrio (21,5%), vomito con rispetto parlando (23,8%), perdita di peso (63,1%), palpabilità della massa tumorale (37%). Il complesso dei segni, la semiologia, come usano dire i moderni medici che paiono curarsi della terminologia più che degli stessi fenomeni morbosi, è stata naturalmente in dipendenza dell'evoluzione e della crescita anatomica del maligno».

«In questo punto lasciatemi inserire qualche cenno di risposta ad uno pseudo studioso di terra britannica, un laico che per offendere la chirurgia ha pubblicato uno studio sui suicidi da maligno nei periodi pre e postoperatorio. A parte che una statistica veritiera di tali suicidi non si avrà mai, prima       di tutto perché è impossibile sceverare quali sono dovuti al maligno e quali ad altri accidenti e seconndo perché la chiesa la proibisce in quanto il suicidio è peccato, la chirurgia coi suoi miracoli, profani s'intende, sta suscitando enorme interesse e attrazione tanto che molti anche perfettamente sani si rivolgono a noi per farsi tagliare, asportare qualcosa. Il maligno non è più un biblico flagello, ma un malanno un accidente nato come tanti altri per morticare la carne: così che la diffusione di questo   stesso studio si propone di facilitare fra le genti dimestichezza e familiarità con i maligni».

«La durata della sintomatologia (il tempo intercorso fra l'inizio dei guai e il nostro intervento risanatore) nell'assoluta maggioranza dei casi (75,5%) non ha superato i dodici mesi, e anzi' più grande numero di afflitti ha presentato un sintomatologia rapidamente evolutiva tanto ingravescente che ha condotto all'impiego dei ferri entro sei mesi».

«Il gruppo formato da quei casi che hanno presentato una sintomatologia più sopportabile e più lunga, durata due o più anni (fino ad oltre dieci) è rappresentato nella misura del 24,5%. In questo gruppo di casi è verosimile pensare che l'evoluzione del maligno sia stata più lenta, più blanda tanto da consentire agli infermi una relativa ma certo lunga e serena sopportabilità».

« Vedremo meglio fra poco come al diverso procedere – rapido o lento – della sintomatologia abbia fatto seguito pure una diversa prognosi postoperatoria, cioè una più o meno lunga sopravvivenza».

«Più frequente a riscontrarsi è stata la forma vegetante, dall'aspetto di una massa molle, talvolta con larga base d'impianto. Spesso è stata osservata l'ulcerazione, che si dice sia dovuta alla difficoltà del maligno di nutrirsi nel centro del proprio spessore. Frequente è stata pure la forma pilorica stenosante, occludente. Ma ai fini della nostra indagine non è stato possibile dimostrare alcun nesso fra le forme anatomiche dei maligni e la sopravvivenza a distanza dei pazienti».

«Mai come in questo caso si può quindi affermare che la ferocia della bestia non dipende dal suo aspetto».

«Resezioni gastriche sono state eseguite a Dio piacendo in 413 infermi (327 resezioni parziali, gastrectomie totali e 20 re sezioni esofago-gastriche); operazioni palliative in 139 (125 gastro-enteroanastòmosi e 14 gastrostomie); le laparatomie esplorative, apri e chiudi come si dice nel gergo della chirurgia, 159 sono state».

«Ed ecco i risultati a distanza (sopravvivenze di almeno tre anni) ottenuti dai singoli interventi, radicali o palliativi. Questi ultimi, e lo dice anche il nome, hanno consentito risultati limitati ma abbiamo fatto tutto il possibile perché i pazienti non decedessero in peccato mortale. Soltanto il 4,3% degli operati di gastro-enteroanastòmosi e il 3,7 per cento di quelli operati di apri e chiudi, sono riusciti a sopravvivere tre anni dopo l'intervento. Il che invece di dimostrare l'inutilità della chirurgia testimonia che almeno nell’8% dei casi nei quali si rivelano impotenti gli strumenti dell'uomo e gli infermi rimangono praticamente abbandonati a se stessi, provvede la natura latrice della misericordia celeste».

«Ben diverse sono vivaddio le cifre per quanto riguarda le exeresi o operazioni radicali».

«La gastrectomia totale, per quanto impopolare per il chirurgo poiché è gravata da una mortalità sotto i ferri superiore a quella degli altri interventi radicali, consente risultati a distanza di un certo rilievo, soprattutto se si considera l'estensione del maligno, diffuso a tutto il viscere oppure al fondo o alla regione cardiale».

«Il 9,9% degli infermi sottoposti ad asportazione totale dello stomaco, vive senza segni di recidiva da oltre 5 anni. La gastrectomia totale consente, a scorno degli ignoranti detrattori, compresi quelli che sostengono che privare un uomo dello stomaco significa privarlo delle passioni, una buona ripresa delle condizioni generali, un nutrimento sufficiente a mantenere il peso normale e talvolta perfino una discreta capacità lavorativa. Quanto alle passioni è ancora da dimostrare se sia gran danno davvero esserne privi».

«Ma i dati più significativi, fatti che chiunque può toccare con mano, sono offerti senz'altro dalla resezione parziale, un intervento che per la maestria e l'elevata frequenza con cui è stato praticato (45,9% di tutti gli interventi, radicali e palliativi) e per l'accuratezza dei controlli effettuati sui risultati, permette di far capo a deduzioni di notevole importanza pratica».

«100 pazienti, con una percentuale del 30,5% sui 327 operati di resezione o asportazione parziale dello stomaco, hanno superato in pieno benessere, senza alcun segno di recidiva, il limite tre anni di sopravvivenza dall'intervento, fissato per volontà di Dio come criterio di guarigione clinica. Riferita a cinque anni, la percentuale di sopravvivenza è appena di poco inferiore (28,6%)».

«In altre parole, si può affermare con legittimo orgoglio che su tre pazienti operati di resezione maligno allo stomaco, almeno uno, senza distinzione di ceto se non fosse che soltanto gli abbienti sono in grado di pagarsi l'operazione ma i poveri possono pur sempre prestarsi all'addestramento dei giovani chirurghi, almeno uno su tre dicevamo, ha la certezza quasi assoluta di conseguire una guarigione clinica o quanto meno un periodo abbastanza lungo di sopravvivenza. Un supplemento di vita, un lasso di tempo sufficiente a trasformare in santo un peccatore».

«Nell'insieme, complessivamente 121 sono i casi di sopravvivenza a distanza ottenuti mediante la terapia chirurgica, e la riprova che diciamo il vero è nella gratitudine tangibile di tali infermi che ha consentito di edificare nel nostro arcispedale un nuovo padiglione destinato esclusivamente alla chirurgia».

«Confrontando, nelle 121 prognosi positive, casi a sintomatologia breve (limite un anno) e casi a sintomatologia lunga (da uno a oltre dieci anni), risulta che i secondi sono in maggior numero: infatti, mentre la percentuale di sopravvivenze a distanza per gli infermi che hanno presentato una sintomatologia breve è del 15,1, tale percentuale sale al 24,4 per quegli infermi che hanno presentato una sintomatologia durata da uno a oltre dieci anni».

«Questi dati, di non piccolo momento, possono suscitare perplessità, tanto paiono in contrasto con il postulato dominante – e giusto – che diagnosi e intervento precoci rendono meno grama la prognosi nei maligni trattati con metodi chirurgici. Ma tale contrasto è in realtà soltanto apparente, poiché la lunga durata della sintomatologia non può che significare che in tal caso l'evoluzione e la crescita del maligno è lenta, a volte lentissima, così che una diagnosi posta anche a molta di stanza dall'insorgenza del maligno equivale a una diagnosi posta precocemente quando esso insorge ed evolve con rapidità. Probabilmente nel fenomeno segnalato si può ravvisare l'esperienza concreta di ciò che alcuni audaci e forse blasfemi ricercatori definiscono una sorta di difesa interna del corpo, che si attua con mezzi peraltro ignoti. Dal canto nostro siamo piuttosto persuasi che nostro Signore dispensa a ciascuno il maligno che merita».

«Traducendo in termini pratici il valore e il significato della nostra scoperta, ci limitiamo a sottolineare che mentre soltanto 1 su 6,7 infermi hanno presentato una sintomatologia breve hanno avuto una prognosi buona a distanza, tale proporzione sale a 1 su 4 per quegli infermi che han presentato una lunga sintomatologia».

«La differenza, come si vede, è rilevante, l'ampia casistica su cui è stata osservata le conferisce forse un non casuale significato. Sarebbe importante comunque poter confrontare questi nostri dati con altri, ugualmente veritieri, ricavati da studi condotti in questa stessa direzione; capaci di considerare il maligno senza ritegni pietistici né superstiziosi veli».

«La conoscenza non è il maligno della fede, amen».

(pp. 47-74)

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