L'esercito di Scipione

Editrice Galileo, Bologna, 1960, pp. 413 (ristampa Bompiani, Milano, 1972; 1977)

L'autore tiene a definirlo "romanzo popolare", e avrebbe voluto dichiararlo sotto il titolo; in realtà neppure tale limite a posteriori riuscirebbe a nascondere le ambizioni letterarie e le sollecitazioni culturali che stanno alla base di questo Esercito di Scipione. Mentre esso appare infatti costruito entro le regole del "genere", e sta, per così dire, al gioco, di questo rifiuta in pari tempo la dilatazione epica e il "gridato" moralistico, cioè l'anima e il corpo delle storie esemplari del romanzo popolare tradizionale. Ed è proprio a questa contraddizione, a questa rottura, che fanno capo le ambizioni e le sollecitazioni più suggestive: da qui è possibile aprire la prospettiva di un modulo romanzesco nazional-popolare, in senso gramsciano, aspirazione massima di ogni scrittore seriamente impegnato nella realtà, nella storia non privata del proprio tempo.
Lasciando aperto e impregiudicato questo discorso, e trasferendoci sul piano di una lettura oggettiva, questo romanzo di vasto disegno narrativo si può senza dubbio considerare un'"opera prima" capace di rivelare un nuovo e sicuro scrittore.

(dalla seconda di copertina)

Armistizio dell'8 settembre 1943: l'esercito italiano si disperde, diventa una gigantesca diaspora di sbandati in cerca di salvezza. Da questo evento storico, di cui ancora si discute, prende le mosse il romanzo: seguiamo così, passo passo, discendendo dal nord, il cammino di alcuni militari meridionali ai quali il fronte, che taglia in due la penisola, impedisce il ritorno a casa. Con loro è un maggiore, una presenza ambigua poiché, se non è più un superiore, di fatto conserva agli occhi degli ex soldati gli attributi del grado. Una città settentrionale offre loro un rifugio, ma le dura necessità della sopravvivenza e le barriere dei pregiudizi fra nord e sud mantengono unito il gruppo che il maggiore continua a considerare come un proprio personale esercito. Col nome di battaglia di "Scipione", tenta una velleitaria partecipazione alla lotta clandestina, alla guerriglia urbana: di queste non accetta, perché non può comprenderla, la natura democratica, e sogna per sé un ruolo di primo piano, da tecnico della guerra quale pretende di essere. Intanto il suo minuscolo esercito si disgrega: senza le costrizioni della vecchia disciplina, il destino di ognuno ridiventa individuale.
Oggi, nella prospettiva che ci separa dagli avvenimenti raccontati, L'esercito di Scipione ha il sapore di un romanzo storico insieme alla verità e alla validità di un documento.

(dalla quarta di copertina, Bompiani 1972)

Note: dal libro è stato tratto un film televisivo in tre parti, andato in onda tra il 13 e il 27 gennaio 1977, per la regia di Giuliana Berlinguer, con interpreti Pietro Biondi, Pier Luigi Giorgio, Gianna Piaz e Piera Degli Esposti (vd. scheda)


Critica

Dopo l'8 settembre nelle file sbandate dell'esercito italiano trapelano notizie contraddittorie. C'è chi sa prendere iniziative e scaricare la sua rabbia repressa da tempo: la rabbia d'un destino di soldato non accettato, di alleanze non tollerate. Il comandante di un distaccamento decide una sua guerra personale con i nazisti e cade con molti dei suoi sul campo. Sopravvive del distaccamento un gruppo di uomini che restano legati ad un maggiore: sono uomini del Sud che si trovano al Nord, e tentano un rimpatrio, o solo forse un chiarimento. Con il maggiore si fermano a Bologna, entrano in contatto con le forze partigiane, partecipano — a loro modo — alla lotta clandestina, sempre però rispettosi del "loro" capo, che ha ora preso il nome di Scipione. Questo piccolo esercito di Scipione è come una moderna armata Brancaleone: un'armata di sbandati guidata da un uomo fuori tempo. Il maggiore Scipione non capisce il nuovo linguaggio dei partigiani, la giovinezza del loro credo politico. È un uomo ancora del regime, anche se ha rifiutato i miti fascisti: vuole rispetto per il grado, pretende il riconoscimento delle gerarchie. Su questo contrasto Giuseppe D'Agata ha costruito un libro frizzante, divertentissimo.
g.der., «La Stampa», 26 gennaio 1973.

[…] Oppure, ancora, come "L'esercito di Scipione. Il romanzo dell'8 settembre", scritto nel 1958 ("un anno di merda, uno dei più grami", scriverà l'autore ricordando il periodo in cui lavorava come geriatra non pagato facendosi mantenere dal padre che scontava il suo "spirito missionario" e non aveva ancora raggiunto la consapevolezza che "il personale è politico") e pubblicato nel 1960 dalla bolognese Editrice Galileo. Il romanzo ha avuto una storia fortunata: riedito una prima volta nel 1972 da Bompiani e poi di nuovo nel 1977 per essere inserito in collana tascabile, ha avuto anche una trasposizione cinematografica nel 1977 con Giuliana Berlinguer alla regia e tra gli interpreti Piera Degli Esposti, Pietro Biondi e Ferruccio De Ceresa.
Ma oggi parte della produzione letteraria di D'Agata è scomparsa dalle librerie. Poco tempo fa mi è capitato di recuperare una copia di un romanzo fuori catalogo in un mercatino di libri usati, affondata in un contenitore di plastica grigia tra gialli Mondadori e Garzanti degli anni Settanta. Prezzo: un euro. Così "L'esercito di Scipione" l'ho acquistato e nelle 348 pagine della storia si avverte tutta l'ampiezza di un poema epico, di un ritratto corale umano e politico. La vicenda ha inizio con l'armistizio dell'8 settembre 1943 e protagonista è un drappello di soldati – molti dei quali meridionali – dell'esercito italiano che, colto alla sprovvista nelle campagne trevisane, decide di disertare e va alla ricerca di un rifugio. Bologna è la destinazione transitoria, in attesa che la guerra finisca o che i combattimenti si calmino per riprendere ciascuno la strada di casa.
A guidare quei militari, a infondere loro fiducia e a rassicurarli nella scelta compiuta c'è un unico ufficiale, mitizzato nel suo ruolo di comando, a cui si affidano ciecamente, come fosse un padre, e come verso un padre a lungo non ne vedranno i difetti, le paure, le bassezze. Ma raggiunta Bologna, si rendono conto che attendere la fine del conflitto non è abbastanza e che occorre congiungersi al fronte partigiano. Ed è proprio a questo punto che il drappello si sfalda: la tranquillità di un letto e di un pasto caldo, la routine del lavoro, l'amore in cui alcuni dei protagonisti inciampano, le furberie di altri per garantirsi la sopravvivenza e magari qualcosa di più dividono i soldati, per sempre, e dividono le loro prospettive, non più tese al raggiungimento della sicurezza momentanea.
Lo scenario del romanzo passa dalle campagne venete a quelle ferraresi, dove i contadini, consapevoli del rischio e allertati dalle ronde naziste, nascondono e nutrono i fuggiaschi. E si approda in una città, il capoluogo emiliano, in cui non si respira il rigore neorealista reso da parte della letteratura e dal cinema, strumento per raccontare una realtà senza altro scopo che la lotta politica. Qui si respira un'atmosfera indulgente, più simile ai racconti fiorentini di Vasco Pratolini, dove la meschinità è il naturale contraltare all'eroismo quasi mai cercato e talvolta dai tratti infantili, dove l'ingenuità è dolce ma si paga cara e dove l'ortodossia ideologica può equivalere all'imprudenza per sé e per gli altri, quando non a vera e propria stupidità, se non viene controbilanciata da sangue freddo e strategia.
Peccato davvero che "L'esercito di Scipione" sia introvabile, se si escludono le biblioteche. Perché, ancor prima di essere un romanzo straordinario, è un affresco, un documento, degli ultimi anni di guerra, dell'occupazione, della vita degli uomini della Resistenza. Ma anche di coloro che, pur non avendo scelto le montagne, rimangono in città a resistere in un altro senso forse più edulcorato, meno militare ma altrettanto importante e rischioso: fornendo lavoro ai riparati, nascondendo i fuggiaschi, nutrendo chi ha perso tutto. E non per un impulso fideistico per impone di farsi samaritano e dare cibo agli affamati. Ma perché tutti, ognuno nel proprio ruolo, sogna il futuro e sa che il proprio è quello del compagno di cammino e che solo insieme potranno raggiungere quella giustizia sociale che gliele aprirà, le porte del futuro.
Ha ragione, Giuseppe D'Agata, "il personale è politico".
Antonella Beccaria, Giuseppe D'Agata e L'esercito di Scipione: laddove "il personale è politico", www.carmillaonline.com

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